100 anni fa nasceva Alberto Sordi, raccontò l’Italia e gli italiani

Cento anni fa, il 15 giugno del 1920, nasceva, in una stradina del Rione Trastevere a Roma, una delle maschere più celebri della cinematografia e dell’arte italiana. Comica e tragica allo stesso modo, unica e riconoscibile, inimitabile, con la quale sono stati raccontati i pregi e soprattutto i difetti dell’italiano medio. Alberto Sordi, potremmo dire facendo un po’ il verso a Pirandello, “era uno e centomila”. E’ stato il volto di un’Italia che ha faticosamente tentato di rialzarsi dal dramma della guerra, di un’Italia caciarona e tronfia negli anni della dolce vita, di un’Italia smargiassa e spaccona ingozzatasi negli anni del benessere, di un’Italia già sul sentiero della malinconia in quegli albori di una crisi tuttora imperante. Ha raccontato con Alberto, il compagnuccio della parrocchietta di “Mamma mia che impressione”, l’invadenza esasperante dello sciocco bacchettone in pantaloncini e dalla chioma biondissima; con Oreste Jacovacci, il personaggio interpretato ne “La Grande Guerra” di Mario Monicelli, il pavido, il vigliacco richiamato alla prova dell’ardire; con Otello Celletti “Il vigile” borioso e altero per via della divisa tirata a lucido, fiero per quella rivalsa dopo anni di pernacchie all’osteria; con Onofrio Del Grillo il dandy ante litteram dedito agli scherzi e in fuga dalle responsabilità di blasone; con Nando Meniconi, protagonista di “Un americano a Roma”, il giovane borgataro che sogna gli States, che si atteggia a cowboy ma le cui convinzioni cedono miseramente dinanzi ad un piatto di maccheroni.
Raccontare Alberto Sordi è arduo. La mole di pellicole interpretate mette a dura prova le intenzioni da Bignami di chi intende concentrare la sua carriera in uno scritto. Una carriera intensa, frenetica, generosissima, cominciata da ragazzino come comparsa nei primi peplum di Cinecittà. Particine, comparsate, pose giornaliere. Ma la svolta, a guerra finita, arriva non davanti la macchina da presa ma nel buio di uno studio di doppiaggio. Grazie a quella voce greve e baritonale viene scelto per doppiare Oliver Hardy, il corpulento e celebre attore del duo comico Stanlio&Ollio. La sua voce sarà il grimaldello che lo aiuterà ad aprirsi un varco verso il successo. Approda alla radio, porterà nell’etere alcuni dei suoi personaggi più noti, e “I compagnucci della parrocchia” finiranno per colpire Vittorio De Sica che decise di portare sul grande schermo uno dei personaggi frutto di quella sua satira verso l’Azione Cattolica. Arriverà al cinema “Mamma mia che impressione”, non certo un successone al botteghino ma fu il suo trampolino di lancio. A dargli una spinta ancora più vigorosa il suo amico Federico Fellini, con il quale condivideva sogni, lunghe chiacchierate notturne in una Roma illuminata dal chiarore della luna e qualche modesto pranzo (causa tasche perennemente vuote) in una delle tante trattorie del centro. Lo sceglierà dapprima per interpretare la star dei fotoromanzi, fanfarone e ammogliatissimo ne “Lo sceicco bianco” e poi per impersonare il più acerbo tra “I vitelloni”, l’immaturo Alberto.
Ma il vero successo arriverà con Steno, con il lancio al cinema del fortunato personaggio di Nando Meniconi: dapprima una parte nel corale “Un giorno in pretura”, poi il ruolo da protagonista in “Un americano a Roma”. Da quel momento sarà un crescendo di successi, l’Albertone nazionale diventerà passo dopo passo un pezzo della storia di questo Paese che ha sapientemente raccontato. Non contento è passato dietro la macchina da presa dirigendo decine e decine di pellicole, scandagliando da regista usi e costumi di un popolo, mettendo a nudo le fragilità di una nazione intera; ha incarnato l’italiano medio, l’arrivista e l’ingenuo, il cinico e la vittima, il burocrate e il borgataro, l’industriale e il “fruttarolo”, il nobile e il borghese. Mille storie, mille vite, una faccia. Ma dietro quella notorietà si è celato un uomo gelosissimo della propria privacy. Una vita privata blindatissima la sua, di lui e dei suoi amori si è saputo sempre ben poco, asserragliato nella sua villa ad un passo dalle Terme di Caracalla con la sorella Aurelia, parco nelle ospitate, con le poltrone ancora incellofanate e il bagno degli ospiti coi rubinetti ossidati. Così pieno di slanci nella sua dimensione pubblica quanto zelante nel tenere il mondo fuori dalla sua porta. Per questo forse non si sposò.
“Non mi sposo – amava ripetere – perché non mi piace avere della gente estranea in casa”. Uomo generosissimo, un assodato altruismo che smentiva la nomea di avaro. Alberto Sordi non è stato soltanto l’italiano, Alberto Sordi è stato l’Italia; un monumento vivente, specchio dei vizi ma anche delle virtù di un popolo spesso sopra le righe, sprezzante e generoso, sognatore e furbo, sprovveduto e giudizioso. Se Albertone fosse vivo, nei giorni della pandemia, in pieno lockdown avrebbe promosso il comportamento rispettoso di chi è stato costretto a murarsi a casa. “Gli italiani – disse d’altronde – si governano da soli”. Un’autarchia che ha celebrato con la sua arte, lui protagonista di una commedia italiana che ha avuto la capacità di annotare i cambiamenti di un Paese. Buon compleanno Albertone, maschera di un’Italia impenitente e superba.
(ITALPRESS).