COMPIE 80 ANNI IL DIVINO PELE’

Edson Arantes do Nascimento detto Pelè compie ottant’anni. Volendo, anche cento, non per farlo Grande Vecchio ma Divo Eterno. Qui Divo non vuol dire popolare, come si dice di attori o anche calciatori travolti da milioni di fans, o influencer tampinati da milioni di followers, no: Pelè è semplicemente Divino, collocato da sempre in un Olimpo per viventi eccezionali. Forse per i tre Mondiali vinti, in Svezia nel ’58, in Cile nel ’62 e in Messico nel ’70? Forse per i 1281 gol segnati in 1363 partite? No. E non aggiungo altri trofei, altri riconoscimenti che ha ricevuto in tutto il mondo. Voglio solo dire – semplificando – che chiunque di voi che mi sta leggendo – bambino o centenario – sa chi è Pelè, lo ha visto e sentito almeno una volta nella vita. E io ne scrivo non per ricostruire la sua stranota vita ma per dirvi – orgoglioso – che l’ho conosciuto bene e che pur avendo un anno più di lui, lo accosto ancora come quando non avevo ancora vent’anni e lui era già Campione e del Mondo: non in adorazione ma felicemente stupito della sua bravura e della sua semplicità.
Il primo incontro non fu in uno stadio per una delle sue 1363 esibizioni ma in un giorno d’inverno a Riccione, un passaggio fuori ordinanza nella cittadina romagnola con una nuovissima moglie tedesca, Rosemarie, che le tante biografie ignorano. Era il 28 febbraio del 1966, un anno poco felice per lui (gli avrebbe fatto conoscere anche il nerbo selvaggio di pedatori bulgari e portoghesi al Mondiale d’Inghilterra) cominciato con la fuga del suo manager con tutti i soldi guadagnati in carriera. Pelè fu salvato da un amico/ammiratore tedesco, il birraio Roland Ender presidente del Monaco 1860 – il club dei “cugini poveri” del Bayern – che pagò i suoi debiti e gli presentò Rosemarie dopodichè, essendone un habituè, li portò a fare una rapida svernata a Riccione. Dove lo incontrai (non esistevano i selfie ma una bella foto con lui ce l’ho) e mi resi conto della sua immensa e incredibile umiltà. Non dico modestia, virtù spesso artificiale: umiltà. Uno fra tanti, uno con noi. La sua visita fu considerata dai giornaloni una balla (come le odierne fakenews) e ce lo godemmo in esclusiva. Quando dicevo “ho incontrato Pelè” dovevo tirar fuori la fotografia scattata da Palmas, un famoso fotoreporter romagnolo.
Lo ritrovai quattro anni dopo e fu un doloroso incantesimo: finale del Mundial 1970, a Messico, dopo lo storico Italia-Germania 4-3, lo vidi segnare a Albertosi quel gol con un pallone rubato al cielo, restando sospeso in volo come un’aquila. O un angelo. Ma il rapporto nato a Riccione riprese vigore quando, nel 1971, vivemmo insieme una tournèe in Nordamerica – New York, Toronto e Montreal – con il suo Santos, il Bologna di Edmondo Fabbri e il West Ham di Bobby Moore. Vivevamo negli stessi alberghi, seguivo i suoi allenamenti ma soprattutto mi consentiva di assistere alle sedute di massaggi e esercizi che rivelavano la sua straordinaria fisicità. Lavorava duro e un giorno mi disse: “Non posso lasciarmi andare, io sono la banca del Santos, se ci sono io, in squadra, può chiedere cifre astronomiche”. In un Bologna-Santos, subìto un tunnel dal rossoblù Mauro Pasqualini, si tolse la maglia e gliela donò seduta stante. Non era falsa modestia ma illuminante umiltà. Contatti ulteriori quando dovendo scegliere fra lui e Maradona, fatti i conti mi permisi di dire – a un summit mediatico – che il miglior calciatore di tutti i tempi si chiamava Alfredo Di Stefano. E non ho cambiato idea. Con l’eterno ragazzo di Très Coraçoes, ci siamo ritrovati a Milano nel 2004 per la presentazione del suo film/documentario “Pelè eterno”. Un saluto, “ciaociao”, e via. Con quelli intorno che non capivano. “Ciaociao”. Perchè così si fa, fra amici vicini e lontani, quando si desidera ritrovarsi. Aspetto il momento buono. Intanto, auguri umanissimi, divino Pelè.