ADDIO A PAOLINO ROSSI, EROE DEL MUNDIAL 1982

La prima condanna – quella che gli stolti chiamano male incurabile – l’aveva schivata; la seconda, praticamente un infortunio, è stata decisiva. Così se n’è andato Paolino in una intimità tragica raccontata da Federica, la moglie con la quale aveva vissuto una festa estiva alle Maldive prima di piombare in un incubo. Conosco lei – giornalista che ha lavorato a lungo con me – conoscevo bene lui, eroe della mia storia più bella, il Mundial del 1982. Ecco, so che “eroe” non gli sarebbe piaciuto. Non scomodiamo Achille e compagni. Quando gli fui alleato nel momento più difficile della sua vita – quell’infame chiamata di correo nel calcioscommesse – eppoi vincemmo alla faccia di tutti i critici detrattori, mi raccomandò di non eccedere, di godere il successo come faceva lui, recuperando un bel sorriso e il cuore generoso. Non accolsi il suo invito perchè eravamo sodali ma su fronti diversi. Lui aveva sofferto e era guarito, tornava, invitato, sui suoi passi e sui suoi gol con lo spirito del vincitore che non sa farsi gradasso, disse che era “carino” anche il critico che l’aveva coinvolto nella pochade con Cabrini, finita in Italia con una risata grassoccia, in Spagna e Brasile come un motivo in più per ridicolizzare la Nazionale di Bearzot sgradita – si fa per dire – ai criticonzi nostrani. Quando fece fuori il Brasile di Zico e Falcao il popolo oroverde soffrì quasi come per il maracanazo del Cinquanta. Com’era stato possibile che quegli italianuzzi fossero diventati così grandi, forti, superiori? Zico rifiutò energicamente la superiorità azzurra, ci accusò di essere i soliti catenacciari. E quei sei gol assassini del Paolino diventato Pablito a furor di popolo donde venivano? Forse lo capirono quando vincendo quella finale e il Mundial con la potente Germania risuonò l’urlo prodigioso di Tardelli, degno accompagnamento anche del gol del ragazzo di Prato, del talento di Vicenza, del prodigio di Perugia e del professionista juventino valutato più di due miliardi, maturato giocoliere nel vero senso della parola: rivedete i suoi sorrisi che riempiono i teleschermi e ve ne farete una ragione. Si divertiva perchè il calcio era il suo gioco come gliel’aveva proposto e insegnato Gibì Fabbri al Lanerossi, cercando di sfruttare al meglio il suo spirito rapinoso, le sue leve che assecondavano il dondolio del bacino scaricando il peso di un’apparente leggerezza sulle ginocchia che infatti soffrirono sempre fino ad abbreviargli la carriera.
Paolino poteva continuare a vivere sereno dopo tanto successo impedendo a Pablito di sentirsi superiore perchè il mondo intero l’aveva osannato. Non l’ho mai visto irato, e voi? Non l’ho mai sentito aggressivo, e voi? Qualcuno lo riteneva un opinionista leggero, troppo buono, lui sapeva cosa voleva dire essere ferito dalla critica – quante bastonate aveva preso – e non aveva alcuna intenzione di farsi picchiatore. Neanche a parole. Come quando se n’è andato Maradona sento dire che il calcio ha perso tantissimo. Nel mio piccolo so che abbiamo perso un uomo in gamba legato alla famiglia, un atleta esemplare legato alla squadra e a tanti ricordi di gioco e di vita. L’ho sempre raccontato umile ma forse lo era perchè alle spalle aveva una storia da re. Il mio re Paolino cui dedicherò una sommessa preghiera.